mercoledì 19 dicembre 2012

Certezze

"Non lo perdonerei mai!" afferma Cecilia durante una discussione in classe, quelle che partono dalla lettura di un brano antologico e si allargano su tematiche più o meno (o per nulla) attinenti alla vicenda trattata.
La discussione è scivolata sulla opportunità o meno di perdonare un tradimento (di un amico / di un partner, etc.).
La fiducia che si dà alle persone cui si vuole bene, sostiene Cecilia, non deve in alcun modo essere tradita. Ecco perché, afferma, non è disposta a perdonare. Per nessuna ragione al mondo.
La osservo attentamente mentre, infervorata, sostiene le sue argomentazioni che alcuni dei suoi compagni condividono, altri no.
Quello che mi colpisce è la perentorietà delle loro affermazioni. Incrollabili. Come se fossero assolutamente certe. Quando si hanno quindici anni, o giù di lì, si ha bisogno di certezze. E si afferma che mai e poi mai accadrà che ...
Poi, man mano che gli anni passano e la vita ci pone davanti a una serie di circostanze, può accadere che quelle certezze, che ritenevamo dogmi, vacillino.
E forse, anche se le auguro che mai accada, anche Cecilia, tra dieci, venti, trent'anni, sarà costretta a mettere in discussione le sue attuali certezze.
(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎6 ‎dicembre ‎2009)

lunedì 3 dicembre 2012

Scrivere

Io ho sempre adorato scrivere, fin da bambina.
Mi piaceva già da allora mettere su carta i miei pensieri, le mie riflessioni, raccontarmi la mia vita o scrivere brevi storie.
Ricordo che d'estate, talvolta, quando ero in vacanza a casa della nonna, i suoi vicini di balcone aspettavano il momento che io leggessi il racconto che avevo appena scritto.
Poi mi riempivano di elogi. Non so se li meritassi davvero, quegli elogi. Certo, per loro era un modo per trascorrere quelle calde serate estive. Per me era un modo per esercitarmi. Per usare le parole, plasmarle, metterle al servizio delle emozioni.
Durante l'adolescenza ho riempito pagine e pagine di agende che fungevano da diari. Tre di quelle agende, diventate famosissime tra i miei amici più cari, se non altro perché le portavo sempre in giro con me, in una borsa di cuoio da cui non mi separavo mai, le bruciai il pomeriggio di un 31 dicembre.
Un po' mi dispiace, adesso, averle distrutte. Sarebbe stato interessante ricercare in quegli scritti l'adolescente che ero, i suoi sogni, i suoi desideri, le sue emozioni.
Ma forse é stato giusto così, allora. Continuavo a guardarmi indietro, rifiutando di fare delle scelte necessarie. In fondo, quello che sono adesso è anche il risultato di quel falò, in cui simbolicamente avevo distrutto il passato per incamminarmi verso nuove emozioni.
 

(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder domenica ‎11 ‎luglio ‎2010)

domenica 2 dicembre 2012

Genitori e figli

"Figli si nasce. Genitori no." E quanto più è complesso il contesto in cui i figli cresceranno, tanto più ci si dovrà applicare per fare bene il genitore. Perché ad essere genitori si impara, come accade per tutte le arti. Non è destino, non è caso, come ci si è illusi negli ultimi vent'anni

giovedì 29 novembre 2012

Logica, caso e superstizioni

"Non si può estrarre la logica dal caso" (Luigi Pirandello: "Il fu Mattia Pascal", 1904).
Non si possono confondere causalità e casualità.
Non possiamo far sì che l'Illuminismo sia passato invano.
Se, nonostante anni di studio e approfondimento, si continua a farsi oscurare la mente dalle tenebre dell'ignoranza e della superstizione, non c'è speranza di riscatto. E si sarà sempre ricattabili da chi vuol far credere che può dominare la vita (e la morte) di ciascuno di noi.
Ecco perché oggi, con gli studenti di quinta, sono uscita fuori dai gangheri. Ho avuto l'impressione di aver parlato invano in questi anni.
Delusa, frustrata, amareggiata. Mi sono sentita così. Le mie lezioni non sono servite proprio a nulla. Peccato!
Peccato dover sentire, nel 2012, che c'è chi, con un livello di istruzione superiore quasi raggiunto (almeno sulla carta) pretende di insegnare verità vissute sulla propria pelle, senz'altro, ma male interpretate: malocchi, fatture, demoni e streghe che gestiscono, grazie ai loro presunti poteri, la vita di chi non ne è dotato.
"Non ci posso credere!" Esclamerebbe la mia studentessa di qualche anno fa.
E anch'io non volevo crederci. E a un certo punto ho zittito, anche piuttosto bruscamente, chi continuava a parlare a scuola, in un luogo sacro, perchè destinato all'apprendimento e all'apertura della mente, di dicerie e fantasticherie di carattere prettamente medioevale. Nel 2012 (quasi 2013) d.C.. Non nel 1012 o 1013...
Che tristezza...

lunedì 12 novembre 2012

Canzoni da stiro

Tra i CD che adoro collezionare, c'è una nutrita schiera di quelli che contengono, come io le definisco, "canzoni da stiro". Si tratta sostanzialmente di canzonette degli anni '60 e, soprattutto, '70, che pochi ricordano e che periodicamente, a volte, vengono rievocate in trasmissioni televisive quali "I migliori anni" o "Meteore".
Gli interpreti e gli autori sono spesso, ai più, sconosciuti. Gruppi come i "Romans", gli "Homo Sapiens", "La bottega dell'arte" o le "Ciliegie amare"; interpreti come Michele Pecora, Sandro Giacobbe, Alan Sorrenti, Roberto Soffici o Viola Valentino.
L'aspetto bizzarro è che, trent'anni fa, quando queste canzoni venivano trasmesse da alcune radio locali "regional popolari", io le detestavo. Ma la nostalgia, che fa apparire migliore alcuni aspetti del passato, mi spinge ad acquistare queste canzoncine e ad ascoltarle quando stiro.
Ecco perché le definisco "le mie canzoni da stiro". Sistematicamente svolgo tale attività casalinga accompagnandola con quella che ritengo essere la sua adeguata colonna sonora. E spesso, perché no?, emulo la "donna" di "Ti amo" di Umberto Tozzi (1977) "che stira cantando".
"Parlerò di te nelle mie canzoni / Parlerai di me, delle nostre emozioni / L'emozione un giorno ti fa ricordare / E non sai scordare / Il sorriso suo / Quello che era mio / Ciò che ho perso /
Era lei / Poesie d'estate / Era lei / Dimenticate / Era lei / Nel fumo di una sigaretta lei / Era lei / Nei giorni allegri / Era lei / Nei gesti pigri / Era lei / Nel rosso di un tramonto c'era lei / Solo lei." (Michele Pecora: "Era lei", disco estate 1979, in " 1977 - 2007 I successi di Michele Pecora, Produzione Lontano Record, Distribuzione DELTADISCHI")
‎(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎29 ‎marzo ‎2009) 

domenica 11 novembre 2012

Cultura dominante (2) e cammelli

Di quella cultura dominante di cui si parla nel post precedente, mi sono nutrita fin dall'infanzia, per metterla in discussione negli anni del liceo.
Mio padre, ormai ottantenne, è un modello di uomo tradizionalista, per quanto sia, nonostante tutto, un poco più aperto di quanto non lo fossero o lo siano gli altri uomini della sua famiglia d'origine (anche coloro che attualmente hanno meno di trent'anni!)
Insomma, mio padre ha sempre ritenuto che non fosse cosa buona e giusta che una donna fosse molto istruita, un semplice diploma era anche abbondante. Una donna istruita è una donna che non piace agli uomini e difficilmente riuscirà a trovare un buon marito.
Ecco, il cruccio di mio padre era questo: nessun uomo, visto il mio caratteraccio e quella vis polemica, diventata man mano più raffinata grazie agli studi classici, mi avrebbe sposato.
Forse temeva di dovermi sopportare, tenendomi in casa per tutta la vita, avendo a che fare con i ragionamenti raffinati che da quando ho 14 anni diventano presto motivo di litigio tra noi, mentre mia madre tenta di mediare, implorandomi di non provocarlo, di non rispondere.
E io invece rispondo, come ho sempre fatto, sin da quand'ero una adolescente ribelle e "femminista" come egli, con disprezzo, mi definiva. Sosteneva che una donna deve rispetto al marito, sottomettendosi, naturalmente, e non permettendosi di rispondergli. Bisognava ricorrere un po' alla menzogna e alle arti seduttive tipicamente femminili per trovare un marito, diceva lui. "Non devi dire la verità, devi un po' imbrogliare, come sanno fare le donne, altrimenti, mettitelo in testa, scapperanno tutti!"
Non lo ascoltavo, nè avrei potuto farlo, convinta che nessuna sana relazione, anche solo amicale, si costruisce sulla menzogna, sull'apparenza, sulla falsità.
Quando gli ho presentato quello che sarebbe diventato mio marito, quasi non credeva ai suoi occhi. E per quanto non lo amasse molto (troppo diverso da lui, praticamente opposti) in cuor suo, a mio avviso, ha esultato come a me è capitato di fare quando l'Inter ha vinto la Champions League.
Mio padre ha sempre avuto difficoltà a capire le logiche che portavano mio marito a "sopportarmi", secondo quelli che sono i suoi parametri.
E qualche anno fa, forse perché l'età più anziana induce le persone a dire esattamente quello che pensano, proprio come fanno i bambini, ha evidenziato il suo punto di vista, che a me, a dire il vero, era già abbastanza chiaro.
E' accaduto durante le vacanze natalizie, durante o dopo, non ricordo bene, uno di quei lunghissimi pranzi che nella tradizione meridionale scandiscono i giorni tra Natale e Capodanno.
Improvvisamente, forse seguendo un suo pensiero, guardando me e il marito, mio padre ha esclamato: "Certo, tu (rivolgendosi a me) probabilmente l'avrai sposato per interesse, ma lui invece ti ama davvero, si vede proprio, e tu non lo ami come ti ama lui!"
Dopo un momento di gelo, seguito alle considerazioni paterne, mia madre l'ha guardato. "Ma che dici?!?!" ha esclamato. "Ma come ti permetti?" ho risposto io, piccata. Il tutto mentre il marito, cui per fortuna non manca il senso dell'umorismo, si sbellicava dalle risate insieme a mio fratello, commentando che nemmeno sua madre sarebbe stata capace di una simile e audace affermazione.
Non è finita qui. Qualche ora dopo, mentre commentavamo le abitudini berbere secondo cui un uomo che chiede in sposa una donna deve portare in dote al padre un certo numero di cammelli, mio padre, rivolgendosi al marito, ha esclamato: "Sono io che devo dare a te i cammelli!"
(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎4 ‎luglio ‎2010) 

Cultura dominante (1)

"Le donne sono donne per struttura fisiologica; fin dal più remoto passato furono subordinate all'uomo; la loro subordinazione non è la conseguenza di un fatto o di uno sviluppo, essa non è avvenuta. [...]
[...] l'azione delle donne non è mai stata altro che un movimento simbolico: esse hanno ottenuto ciò che gli uomini si sono degnati di concedere e niente di più, non hanno strappato niente, hanno ricevuto. Il fatto è che non hanno i mezzi concreti per raccogliersi in una unità in grado di porsi, opponendosi. Le donne non hanno un passato, una storia, una religione [...]. Le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, legate ad alcuni uomini - padre o marito - più strettamente che alle altre donne; e ciò per vincoli creati dalla casa, dal lavoro, dagli interessi economici, dalla condizione sociale. [...] Il legame che la unisce ai suoi oppressori non si può paragonare ad alcun altro. La divisione dei sessi è un dato biologico, non un momento della storia umana. La loro opposizione si è delineata entro un "mitsein" originale e non è stata infranta. La coppia è un'unità fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l'una all'altra. Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Ecco ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l'Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l'uno all'altro. [...]
[...] la donna è sempre stata, se non la schiava, la suddita dell'uomo; i due sessi non si sono mai divisi il mondo in parti uguali e ancora oggi, nonostante la sua condizione stia evolvendosi, la donna è grandemente handicappata. Si può dire che in nessun paese l'uomo e la donna hanno una condizione legale paritetica e spesso la differenza va a duro svantaggio della donna. Anche se astrattamente le sono riconosciuti dei diritti, una lunga abitudine impedisce che essi trovino nel costume la loro espressione concreta. [...] Oltre la forza concreta, posseggono un prestigio del quale l'educazione dell'infanzia tramanda la tradizione: il presente assorbe il passato, e nel passato la storia è stata fatta dai maschi. Nel momento in cui le donne cominciano a prender parte all'elaborarsi dei fatti umani nel mondo, si trovano davanti a un mondo che appartiene ancora agli uomini; i quali non mettono in dubbio i propri diritti, mentre le donne incominciano appena a farlo."
Tratto da: Simone de Beauvoir: "Il secondo sesso", Traduzione di Roberto Cantini e Mario Andreose, Il Saggiatore, 1994, Pgg. 18 -20. (Prima edizione in lingua originale: Gallimard, Paris, 1949)
(‎Già pubblicato sulla piattaforma Splinder giovedì ‎1 ‎luglio ‎2010)

Il "lider maximo"

Non era uno solo, il "lider maximo".
Ce n'era almeno uno per ogni istituto superiore (a volte un paio, in competizione tra loro).
Le ragazzine del primo anno li adoravano e pendevano direttamente dalle loro labbra.
Loro ne approfittavano per la diffusione dei quotidiani e delle riviste legate solitamente al P.C.I. o alla sinistra extraparlamentare.
C'erano giovani adolescenti disposte a privarsi della merenda pur di trovare l'occasione per parlare con loro, con i leader, i capi di quella rivoluzione ancora in atto che presto sarebbe scemata e sopraffatta dal riflusso degli anni '80.
E quale occasione migliore per contattarli, solitamente prima o dopo le lezioni o durante l'intervallo, e chiedere loro di acquistare il quotidiano o le riviste di controinformazione?
C'erano anche quelle disposte a sacrificare altro, non solo la merenda.
E anche qui il "lider maximo" approfittava.
In barba al femminismo imperante dell'epoca (si era intorno alla metà degli anni Settanta), le dinamiche erano sempre le stesse. Le donne non più ritrose ma sfacciate. Gli uomini che prendevano ciò che c'era da prendere. Tutti liberati, più o meno.
Nella percezione generale, però, il "lider maximo" passava per "figo" (mi sia concesso il termine), mentre la ragazzina liberata passava per poco di buono (e qui non ho osato il termine, ma è comunque quello!)
(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎26 ‎luglio ‎2010)

mercoledì 31 ottobre 2012

Le ragioni del cuore

"Se ne farà una ragione", gli aveva risposto, quando lui le aveva parlato di Marco, della sua sofferenza, della sua difficoltà ad accettare la loro separazione.
Marco era un suo collega e il suo migliore amico, gli dispiaceva non riuscire a far nulla per lui. E forse proprio per questo, quando l'aveva incontrata, le aveva parlato di lui.
Ora, di fronte a quella risposta, di fronte a quel "Se ne farà una ragione", era ammutolito e imbarazzato.
Ricordava di averli visti felici insieme, una coppia solida e complice che suscitava l'ammirazione (e a volte anche un po' di invidia) degli altri. E poi...
E poi tutto era finito. Senza nessun segnale. Improvvisamente. Come un uragano che aveva travolto la vita di coppia di Marco che, gli aveva raccontato, era convinto che lei era la donna della sua vita e con lei sarebbe rimasto per sempre. Gli aveva parlato di lei, dopo averla incontrata, proprio in questi termini: lei era la sua donna ideale, era una storia definitiva.
Ma in amore non esistono le definizioni. L'amore non si definisce. Ha bisogno di cure, quotidiane, costanti, continue. Altrimenti, come una pianta trascurata, muore.
Marco non aveva capito che quell'amore che credeva eterno si stava consumando nella noia quotidiana, nella certezza di una definizione. Aveva dato per scontato quell'amore.
Lei c'era, era lì per sempre. E, certo di questo, non aveva colto i segnali che lei, da un certo momento in poi, aveva cominciato a mandargli.
Usciva sempre più spesso, con un'amica. Con le amiche. Da sola. Comunque senza di lui.
A pensarci bene, a differenza del passato, non sembravano nemmeno più tanto solidi e complici.
Di quel periodo ricordava di averla incontrata qualche volta per caso. Da sola. O con qualche amica. Ricordava anche che, in un paio di quelle occasioni, lei si era lamentata dell'eccessivo carico di lavoro di Marco. "E' a casa, sta lavorando." oppure "Sai, lo vedi più tu di quanto non lo veda io."
Non aveva considerato quelle risposte fino a quando, una mattina di settembre, Marco era arrivato in ufficio in ritardo, scompigliato, trasandato, stravolto. "Mi ha lasciato." Gli aveva detto.
Erano passati cinque anni da allora. Quella coppia non esisteva più, almeno per l'anagrafe.
Tuttavia, nonostante fosse passato un po' di tempo, Marco non riusciva a farsene una ragione.
E come avrebbe potuto? Lui la amava. Di un amore definitivo. Che, una volta conquistato, non ha bisogno di cure. Lei c'era e ci sarebbe stata per sempre. Così aveva pensato lui, il giorno del loro matrimonio.
Tale era la sua convinzione. E questo, forse, gli aveva impedito di vedere negli occhi di lei un'ombra, quell'ombra che, a poco a poco, era diventato grigiore e noia.
Quella stessa convinzione gli aveva impedito di ascoltare i pianti notturni di lei, pianti soffocati per non farsi sentire da lui che, sereno come un angioletto, dormiva al suo fianco.
Era stato difficile per lei prendere atto di quanto stava accadendo. Ma i segnali c'erano. Tutti.
Non riusciva più a vedere negli occhi di Marco quelli del ragazzo che l'aveva incantata al primo sguardo, che l'aveva conquistata con la sua intelligenza e la sua creatività, che l'aveva fatta piangere di gioia e di timore che altre lo seducessero e glielo portassero via, che l'aveva avvolta magicamente e le aveva fatto credere di essere la più fortunata e la più felice di tutte le donne.
Lui la amava ancora. Era quello il suo modo di amare.  Ma lei non lo amava più. Aveva cercato di parlargliene ma lui non era stato capace di ascoltarla.
E quando, dopo aver meditato a lungo, aveva preso la sua decisione, una decisione irrevocabile, gliela aveva comunicata.
Era andata via.
"Se ne farà una ragione", aveva pensato.
Trascurando che, come aveva imparato leggendo "I pensieri" di Pascal, "il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce".

mercoledì 24 ottobre 2012

A scuola si muore

"Letture da cameriere" le aveva definite la mia compagna di banco del liceo (classista e rivoluzionaria di sinistra, nonostante l'appartenenza sociale all'alta borghesia cittadina) riferendosi ai suoi scritti.
Brunella Gasperini (1918 -1979), visse a Milano dove si era laureata in lettere classiche e filosofia. Nel 1950 aveva iniziato a collaborare con vari periodici e con il "Corriere della Sera". Su "Annabella" curò per venticinque anni una pagina di colloqui con i lettori; tenne una rubrica di critica cinematografica e una di critica televisiva. Scrisse romanzi, racconti, cronache umoristiche, recensioni, inchieste.
A me piaceva molto leggere le sue risposte alle lettrici (che trovai una volta raccolte in un libro intitolato, se non ricordo male, "Essere donna") e i suoi romanzi. E non mi importava molto ciò che pensava di quelle mie letture la mia compagna di banco del liceo. Ho sempre trovato molto interessante l'attenzione alle problematiche di costume trattate da Brunella Gasperini.
In particolare ricordo due suoi romanzi, pubblicati all'incirca nella seconda metà degli anni '70.
Di uno, prestatomi da una mia amica, ricordo solo il titolo, "Grazie lo stesso" e, vagamente, la storia.
L'altro, è stato ripubblicato alcuni anni fa nell'edizione Tascabili Sonzogno ma ne possiedo anche una copia, acquistata al mercatino dell'usato, del 1980. E' incredibile, rileggendolo, notare quanto risultino attuali, nonostante il romanzo risalga a più di trent'anni fa, i problemi, le ansie, le speranze dei protagonisti della vicenda.
"Amare una ragazza tra i banchi del liceo, sotto i tigli di un'unica estate felice.
Poi vederla distruggersi giorno su giorno con la droga e non poter fare niente.
E infine vederla morta, assassinata, sul pavimento della vecchia palestra: questo capita a Stefano, in un giorno dei suoi diciotto anni. <<Non riuscivo a smetterla di guardarla. Sandra - chiamava qualcosa dentro di me - non fare così. Ti prego, Sandra. Le stesse parole che le avevo detto da viva, tante inutili volte. >>"
(Citazione tratta da: "Brunella Gasperini: "A scuola si muore", Rizzoli Editore, Milano, 1975, seconda edizione Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, marzo 1980, quarta pagina di copertina).
 
Post già pubblicato sulla piattaforma Splinder il 26 luglio 2011

domenica 14 ottobre 2012

Vivo

Sapeva che sarebbero usciti intorno alle 12.30. Cercò di affrettarsi e di non indugiare, come era solita fare, in modo da arrivare in tempo per salutarli. Non sapeva perché, ma sentiva che doveva farlo.
Arrivò in tempo per salutarli: erano già in macchina, nel vialetto di casa.
Li salutò entrambi, come faceva sempre. Salutò nuovamente lui e si voltò a guardarlo mentre si allontanavano.
Ancora non lo sapeva ma era l'ultima volta che lo vedeva vivo.
 
(Già pubblicato sulla piattaforma Splinder il 14 ottobre 2010)

lunedì 1 ottobre 2012

A E R E O

E' stata la prima parola che ho imparato a scrivere, il primo giorno di scuola, il 1° ottobre 1967.
L'ho rivisto di recente quel mio primo quaderno con le righe grandi, la data, e quelle lettere vicine per formare la prima parola scritta da me.
Poi il disegno di un aereo: una specie di farfalla celeste con il corpo rosso.
Passò così il mio primo giorno di scuola, quattro ore per riempire quella prima pagina.
No, non proprio quattro ore. Forse tre. La prima ora passò con la maestra che cercava di consolare i miei compagni che piangevano a dirotto non appena le madri e i padri si erano allontanati.
Non si faceva attività di accoglienza, all'epoca. Non almeno nel modo in cui si intende adesso. Li guardavo quei bambini e non li comprendevo: come facevano a non apprezzare il fatto di essere finalmente a scuola? A scuola, ad imparare le cose importanti, mica a giocare come all'asilo.
Non vedevo l'ora di potere andare a scuola. E aspettai con ansia quel pomeriggio. All'epoca c'erano i doppi e a volte anche i tripli turni per poter contenere nelle strutture scolastiche tutti i figli del baby boom. E ciò accadeva anche in Liguria, regione tradizionalmente poco prolifica, dove ho frequentato le scuole elementari.
Arrivai a scuola poco prima delle 14 accompagnata da mia madre e da mio fratello che aveva poco più di un anno. Licenziai presto mia madre che era già da allora abituata al mio spirito indipendente.
Uscii da scuola fiera di quello che avevo imparato. Pensai che la scuola era proprio come immaginavo: un luogo bellissimo dove si potevano apprendere tante cose!
 
(Già pubblicato su un'altra piattaforma il 1° ottobre 2010)

martedì 28 febbraio 2012

Emozioni scritte

Non c'è stato modo di convincerlo. Mi ha mostrato il bando di concorso in cui nulla vietava di presentare il suo lavoro così, come lui è solito scrivere: a mano, con la biro, su un foglio di carta.
Mi ha quasi commosso la tenacia con cui ha cercato di sostenere la sua posizione. Forse il suo lavoro apparirà ai più desueto, superato. Forse i contenuti non verranno apprezzati perché qualcuno preferirà soffermarsi su una forma che ormai è quella dattiloscritta.
Ma lui preferisce il manoscritto. Le emozioni, sostiene, sono più vere e più vive quando si scrivono a mano e non usando la tastiera di un computer.
"Le mie poesie" ha concluso "io le scrivo su un quaderno, al massimo su un foglio protocollo a righe, rigorosamente a mano".
Si tratta di un nativo digitale che, nonostante tutto, continua a credere nella bellezza delle emozioni, delle emozioni scritte, scritte a mano, rischiando anche di  sbagliare e non poter correggere se non riscrivendo tutto nuovamente.
"Ma è proprio questo il fascino della mia scrittura" ha spiegato ai compagni che lo guardavano come fosse un alieno. Forse in effetti un po' lo è, ma, in fondo, è un bene che alieni di questo tipo continuino ad esistere.

lunedì 13 febbraio 2012

Studenti

Quanti saranno? Non riesco ormai più nemmeno a fare un conto approssimativo.
Studenti dimenticati, annegati nella memoria, persi tra dati che la mente ha ritenuto opportuno non ricordare.
Studenti invece sempre presenti, anche quando se ne sono andati per sempre, con le loro battute, i loro sguardi, le loro difficoltà, le loro vittorie, le loro sconfitte.
Studenti che hanno marcato il percorso di ogni insegnante, lo hanno cambiato, lo hanno promosso, lo hanno bocciato, esattamente come ogni docente ha fatto per ciascun studente, persino per quelli dimenticati, annegati nella memoria.
La peculiarità della relazione tra docenti e studenti è proprio questa: segna ciascuno dei soggetti coinvolti, anche quando, purtroppo, non lascia nessun segno.

venerdì 10 febbraio 2012

Amici e no

Amici di una vita o appena conosciuti e immediatamente amati; amici simili o completamente diversi; persi e ritrovati, detestati e perdonati, rimpianti, incoraggiati, rincorsi, ringraziati, rivisti, allontanati, fidati, recuperati, immaginati, ascoltati, affezionati, consultati. Presenti, comunque, perché gli amici, quelli veri, ci sono sempre, soprattutto nel momento in cui gli altri, quelli che amici non sono, svaniscono, travolti dal tempo, dallo spazio, dalla confusione, dall'illusione che spesso alimenta le  umane passioni.

martedì 31 gennaio 2012

Educazione ai sentimenti

Si può educare ai sentimenti? E lo si può fare a scuola? Io penso di sì. E ne sono così convinta al punto che spesso dedico un modulo delle mie lezioni all'amore. Del resto, la storia della letteratura e dell'arte non possono prescindere dall'amore. Al di là dei testi classici, soprattutto nelle prime classi, utilizzo spesso, prima o insieme ai testi letterari classici (ad esempio, il canto V dell'Inferno e l'amore passionale e travolgente di Paolo e Francesca; l'amore contrastato e drammatico di "Romeo e Giulietta" nella omonima tragedia di Shakespeare, ecc.) film più o meno recenti (e più o meno accattivanti) dedicati all'argomento.

Mi è capitato così di utilizzare i tre film dal titolo, in Italia, "Il tempo delle mele". Sia chiaro: solo il primo e il secondo film sono tra loro legati e raccontano le vicende di Vic, adolescente alle prese con le prime infatuazioni e i primi innamoramenti.

Il terzo film, come vari dizionari specializzati sottolineano, non ha nulla a che vedere con i primi due a parte l'attrice protagonista, Sophie Marceau.

Ai miei alunni adolescenti sono piaciuti il primo e, soprattutto, il secondo film. Non hanno molto apprezzato invece il terzo film.

Ad essere sinceri, "Il tempo delle mele 3" non è, usando un eufemismo, un capolavoro.

Contiene però, a mio avviso, un'interessante sequenza, la penultima del film, in cui la protagonista, Valentine, sostenendo l'esame finale di abilitazione all'insegnamento, presenta una relazione in cui, analizzando "Il Misantropo" di Moliere, utilizza le sue vicende private per imbastire una lezione sull'opera.

"Per me" dice Valentine, "nelle incoerenze dell’amore trattate da Moliere, amare ciò che non conviene è la molla più sovente utilizzata, perché contiene un impatto drammatico eterno e pone la dolorosa questione della difficoltà di amare.

Amare ciò che non conviene, sorgente di errori e di conflitti, spinge i personaggi alla scelta cruciale dell’amore: la scelta tra l’amore tout court e l’amore di sé. [...]

Moliere solleva ante litteram uno dei problemi fondamentali delle coppie moderne: l’indipendenza della donna.

Ciascuno dei due eroi muove ed anima il suo universo, li confrontano ad armi uguali e questi universi sono irriducibili l’un l’altro.

E questa passione irragionevole che Alceste (il protagonista de "Il Misantropo, n.d.r.) combatte, questa passione è a volte profondamente toccante.

Quando per esempio Alceste, il puro, l’intransigente, il nemico fanatico della menzogna, supplica Celimene (la donna di cui Alceste è innamorato, n.d.r.) di mentirgli.

Atto quarto, scena terza: “Sforzatevi di apparire fedele ed io mi sforzerò di credervi tale”.

Nel quinto atto egli spera ancora di cambiarla ma è una chimera, non si può cambiare un essere e non si ha il diritto di esigere questo cambiamento.

Attraverso delle scuse imbarazzate, nel linguaggio prezioso del XVII secolo, ciò che Celimene vuol far comprendere ad Alceste, ciò che lei vuole dirgli è: “Se mi ami, accetta me come sono perché io non cambierò. Tu accetta me come sono ed io accetterò te come sei”.

Alceste è intransigente, egoista, possessivo. Celimene è leggera, irresponsabile, infedele. Ma se accettassero i loro difetti, se riuscissero a sorridere delle loro differenze sarebbe la vittoria dell’amore sull’amor proprio. Solo che questi sacrifici non sono degni che di un grande amore.

E come si riconosce un grande amore?

Il giorno in cui ci si accorge che l’unico essere al mondo che può consolarvi è quello che vi ha fatto del male, allora si sa che si è una coppia.

“Il Misantropo”: commedia o tragedia?

Monsieur (il fratello del re Luigi XIV, n.d.r.) diceva uscendo da una rappresentazione: “Quando si smette di ridere, bisognerebbe piangere!” ed è vero: assistere al fallimento di un grande amore è terribilmente triste, immaginare i due eroi ricacciati nel deserto della loro solitudine è una desolazione.

Io credo sia questo il messaggio di Moliere giunto a noi attraverso il tempo.

E’ a voi, se permettete, che questo discorso è diretto: c’è qualcuno tra voi che ama abbastanza l’essere che dice di amare da preferire la sua felicità alla propria? Da lasciarlo vivere al suo ritmo, piangere delle sue delusioni, ridere delle sue gioie?

E terminerei con queste parole di Alfred De Musset:

“Tutti gli uomini sono bugiardi, incostanti, falsi, chiacchieroni, ipocriti, orgogliosi e vili, vigliacchi e sensuali. Tutte le donne sono perfide, vanitose, artificiose, curiose, depravate. Ma se c’è al mondo una cosa santa e sublime è l’unione di questi due esseri così imperfetti e vuoti.”

“Non Si Scherza Con L’Amore”, scena seconda, atto quinto."
(Già pubblicato su altra piattaforma il 9 febbraio 2009)

"Che fare?"

"Che fare?" mi sento spesso chiedere da genitori alle prese con figli adolescenti indolenti, sgarbati, incontenibili, irritanti.

"Eppure" sostengono "fino a qualche tempo fa era tanto tranquillo...".

A me, sinceramente, verrebbe da rispondere che no, quel ragazzino, tranquillo, da che io lo conosco (e sono ormai molti anni), non lo è mai stato. Era indisponente, prepotente, egocentrico e, soprattutto, abituato a vedere appagata ogni sua richiesta non appena fosse formulata. Che cosa è cambiato, adesso? E' cambiato il valore, la qualità delle sue richieste.

Un adolescente ha esigenze diverse rispetto a quelle di un ragazzino di tre, cinque, sette anni. Dal suo punto di vista egli continua ad essere come è sempre stato.

Il genitore, invece, pensa che sia arrivato il momento di dire no. Ma ai "no" ci si deve abituare fin dalla più tenera età. Altrimenti si penserà, come alcuni adolescenti fanno, di subire un sopruso, di perdere un diritto acquisito. Chi di noi ha mai voluto rinunciare ad un diritto acquisito?

Ecco perché è importante che i genitori stabiliscano, da subito, regole precise e coerenti nell'educazione dei propri figli. Naturalmente tali regole dovranno essere adeguate all'età del bambino, ma non si può assolutamente pensare di far vivere come un selvaggio il proprio pargolo pensando poi di addomesticarlo quando diventerà più grande, stupendosi poi della difficoltà di farlo.

Vivere con un adolescente è indubbiamente difficile, ma lo è ancora di più quando ci si trova alle prese con un adolescente maleducato o ineducato. A cui è stato detto, magari in nome di un maggior presunto amore, troppe poche volte "NO!".



"Tu non mi vuoi bene!"

"Quante volte ve lo siete sentito dire dai vostri figli in tono accusatore?

E quante volte avete resistito alla tentazione di spiegar loro quanto li amavate?

Un giorno, quando i miei figli saranno abbastanza grandi da capire la logica che spinge una madre a comportarsi in un certo modo, glielo dirò.

Ti ho amato abbastanza da chiederti continuamente dove andavi, con chi e a che ora saresti tornato.

Ti ho amato abbastanza da insistere perché ti comprassi una bicicletta con i tuoi soldi, anche se noi potevamo permettercela e tu no.

Ti ho amato abbastanza da star zitta e lasciare che scoprissi da solo chi era l'amico che ti eri scelto.

Ti ho amato abbastanza da costringerti a restituire al proprietario del negozio la cioccolata già morsicata e confessare: <<L'ho rubata>>.

Ti ho amato abbastanza da restar lì come un gendarme per più di due ore a guardarti pulire la stanza, un lavoro che io avrei potuto fare in un quarto d'ora.

Ti ho amato abbastanza da dire: <<Sì, vai pure al luna park. Non importa se è il giorno della mamma>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che vedessi la rabbia, la delusione, il disgusto e le lacrime nei miei occhi.

Ti ho amato abbastanza da non scusarmi mai con gli altri per le tue mancanze o cattive maniere.

Ti ho amato abbastanza da ammettere di aver avuto torto e chiederti scusa.

Ti ho amato abbastanza da ignorare quello che dicevano o facevano <<le altre madri>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che inciampassi, cadessi, ti facessi male, sbagliassi.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che ti prendessi le responsabilità delle tue azioni, a sei, come a dieci, o a sedici anni.

Ti ho amato abbastanza da sospettare che avevi mentito sulla presenza dei genitori del tuo amico a quella festa, e lasciar correre... dopo aver scoperto che non mi sbagliavo.

Ti ho amato abbastanza da metterti a terra, lasciarti andare la mano, non rispondere alle tue suppliche... perché imparassi a stare in piedi da solo.

Ti ho amato abbastanza da accettarti per quello che sei, non per quello che avrei voluto che fossi.

Ma soprattutto ti ho amato abbastanza da continuare a dire <<No>> anche sapendo che mi avresti odiato. E' stata questa la decisione più difficile."

(Il brano dal titolo "Tu non mi vuoi bene" è tratto da: Erma Bombeck: "Se la Vita è un piatto di Ciliege, perché a me solo i Noccioli?", Edizioni Club del Libro su licenza della Longanesi & C., Milano, 1981, Edizione Longanesi: 1980, pgg. 210 - 212)
(Già pubblicato su altra piattaforma l'8 febbraio 2010)

"Chiedi di più"

Ci prendevano in giro perché anziché (o oltre che) ascoltare Bob Marley o Patti Smith ascoltavamo Renato Zero, Umberto Tozzi e i Pooh.
Ci guardavano scambiarci "Tregua", "Gloria", "Boomerang" e i loro sguardi non nascondevano la loro riprovazione, come se stessimo commettendo chissà quale misfatto. Ma per le orecchie nobilissime dei ragazzi del nostro gruppo "quelli lì" erano improponibili.
Così noi ci incontravano in separata sede, a casa dell'una o dell'altra, e lì ascoltavamo canzoni d'amore che ci facevano sognare, meditare, a volte piangere perché troppo forte era la sofferenza d'amore che provavamo o pensavamo di provare.


CHIEDI DI PIÙ


Renato Zero > Tratto dall'Album "Tregua" (1980)

  Se un amore muore,
Una ragione ci sarà.
Forse il coraggio sta morendo!
Poche parole
Una valigia, una bugia,
Ma solo chi rimane
Sa il buio cosa sia…!
Allarga le tue braccia,
A chi ti cercherà…
A chi ti tenderà le braccia!
A chi è pronto a sconfiggere
La noia la dov’è.
A chi di questo amore…
Ha fame come me!
Non voltarti indietro mai,
Sarò felice se ce la farai!
Se vedrai che dopo me,
C’è ancora vita,
Una speranza c’è!
Malgrado tutto resteremo noi…
Coi nostri dubbi dissipati mai!
…Solo noi, ancora noi!
No!
A chi vorrà stupirti…
No!
A chi non sa accarezzarti…
No!
Non basterà una promessa…
No!
Se poi la fine è la stessa…
Chiedi di più,
Chiedi molto di più, ora…!
Chiedi di più,
Di un incontro qualunque
Di un triste su e giù!
Chissà che faccia avrà
Chi mi sostituirà?
Come saranno le sue mani!
Basta che sappia darsi come ho fatto io!
Che non sia solo un gioco,
Solo un mestiere il suo!
No!
A chi gli basta sognarti…
No!
A chi vorrà violentarti…
No!
Se quel tuo istinto non sbaglia…
No!
Se l’anima tua si sveglia…
Chiedi di più
No!
Perché non sei una puttana…
No!
Perché io ogni notte sto in pena…
No!
Forse non ero il migliore…
No!
Ma ti ho insegnato l’amore…

(Già pubblicato su altra piattaforma il 25 giugno 2010)

lunedì 30 gennaio 2012

Post da salvare.

Ho salvato tutti i post del vecchio blog. Alcuni li riscriverei nello stesso identico modo, altri invece no: mi sembrano distanti, superati, non più miei. Il tempo che passa cambia inevitabilmente situazioni e stati d'animo e ciò di cui un tempo eravamo fermamente convinti improvvisamente non ci appartiene più o non ci appartiene nello stesso modo.
Dovessi raccontare adesso alcuni episodi della mia vita li racconterei in modo diverso o non li racconterei affatto: a volte certe storie è bene tenerle per sé o condividerle solo con chi c'era e le ha vissute con noi, magari in modo diverso, ma insieme a noi.

venerdì 27 gennaio 2012

Un mazzo di mimose

Mi sembra di sentirne ancora il profumo inebriante e di provare ancora oggi, benché siano passati esattamente trent'anni da quel giorno, la stessa dolce emozione nel ricevere un mazzo di mimose.
No, non era l'8 marzo (troppo banale regalare o ricevere un mazzo di mimose l'8 marzo, nonché rituale sempre più prevedibile e ormai designificato); era il giorno del mio onomastico e lei, la mia amica, coinquilina, compagna di viaggio e di ventura in quei nostri anni in cui ci chiedevamo chi eravamo e chi saremmo state, mi omaggiò di quel mazzo di mimose che resta nella mia memoria prezioso e semplice, proprio come era, ed è ancora, la nostra amicizia.

domenica 22 gennaio 2012

la 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca non avevo nemmeno la patente), era la macchina della madre del mio amico più caro che, appena ne aveva la possibilità, ne usufruiva.
La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.
Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport per assistere alle partite della locale squadra di basket, effettuare testa-coda magistralmente calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

lunedì 16 gennaio 2012

macerie d'amore (vecchi post)

Mi guardo intorno e sempre più spesso scopro, intorno a me, macerie d'amore.
Coppie che sembravano perfette, indissolubili, unite per l'eternità, che non esistono più e che anzi sono vittime della sofferenza d'amore, del rancore, della cattiveria, dei sensi di colpa per scelte precedenti che hanno fatto male ad entrambi i partner pur se in maniera a volte opposta.
L'amore può essere eterno. Ma a volte finisce. E quando finisce, prenderne atto fa soffrire. Scoprire che l'altro non ha più lo stesso significato fa soffrire entrambi. E, a volte, altri sono coinvolti nella vicenda.
I figli.
Gli amanti. Che non dovrebbero esserci. Ma ci sono. Esistono. E se sono entrati nella nostra storia è perchè ne avevamo bisogno. Niente accade per caso o per capriccio.
Se si è lasciato che qualcuno bussasse alla nostra porta e gli abbiamo aperto, era perché ci mancava qualcosa.
E poi più niente è stato come prima.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 giugno 2010)

Vecchi post: "Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)




Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

vecchi post: "una profe strana"

"Profe, Lei è strana!" - mi dicono ogni tanto gli alunni, dopo essere entrati in confidenza con me, più o meno un paio di mesi dopo il primo nostro incontro in classe.
Naturalmente ogni volta indago. E chiedo in che cosa consista il mio "essere strana".
"Sembra cattiva ma invece è buona" - dicono loro, spiegando che al primo incontro li intimorisco: uso il Lei per rivolgermi loro, ho lo sguardo serio, a volte accigliato, controllo che stiano tutti seguendo, non li lascio ascoltare la loro musica ("Perchè, con gli altri insegnanti succede?" chiedo io. Ahimè, succede...) e li faccio lavorare davvero. "Però poi invece è divertente" e proseguono sostenendo che non si aspetterebbero, date le premesse, una profe che, sfidando le indicazioni del Dirigente Scolastico - fa ascoltare musica in classe, tutti insieme, analizzandone i testi, o discutere su problematiche definite da loro interessanti (lo sono anche per me, chiaramente): stereotipi e pregiudizi nella differenza di genere (tra uomini e donne, per intenderci!), la difficoltà di crescere, l'inquietudine esistenziale (affrontando contemporaneamente lo studio della grammatica e dei classici della letteratura!).
"E poi Lei piange troppo, profe!" e qui, di solito, scoppia il putiferio. "Cosa c'entra che piange! E' una bella cosa!". "Sì, ma una profe seria non piange!". "Per quello è strana!".
Ecco, ora devo ammetterlo pubblicamente: io mi emoziono e, in alcune circostanze, mi commuovo fino alle lacrime: ad esempio, quando leggo il passo dell" "Addio ai monti" o la lirica introduttiva di "Se questo è un uomo", brani tratti da "Lettera a un bambino mai nato" o "Lettera a una professoressa", quando ascolto con loro "Sogna ragazzo sogna" di Roberto Vecchioni o "Non è un film" degli Articolo 31 o quando parlo con loro della vita (e della morte).
Piango tanto. All'inizio della mia ventennale carriera non succedeva. Forse perchè ero giovane e disincantata, forse perchè mi vergognavo ed ero meno spudorata, forse perchè non ero così passionale e appassionata. La prima volta accadde mentre leggevo il brano della morte di Clorinda, tratto dalla "Gerusalemme liberata". E poi è stato un crescendo di brividi lungo la schiena (in fondo, l'arte non deve suscitare emozioni?) e lacrime.
I momenti più belli che ricordo sono quelli dei nostri pianti collettivi, con i maschi che si coprivano il viso per non svelare le lacrime ed io che fingevo di non vedere. Come potrò, come potremo dimenticarli? Quegli attimi saranno nostri per sempre.
Per questo sono fiera di essere "strana".

(Già pubblicato su altra piattaforma il 4 agosto 2008)

Lacrime nerazzurre, uno dei vecchi post

Nella corsa contro il tempo per salvare i vecchi post pubblicati su un'altra piattaforma, indugio spesso nella lettura di quelli che più di altri mi emozionano tuttora, benché sia passato molto tempo dal momento in cui li ho scritti. "Lacrime nerazzurre", pubblicato il 24 maggio 2010, è uno di questi.

"Le lacrime del Capitano, quelle del Chucu, dello Special One, del Principe, di coloro che sugli spalti piangevano di gioia per un'emozione attesa per decenni, un sogno che sembrava dover rimanere tale ed invece diventava realtà in una splendida serata di maggio.
Le mie lacrime di gioia per questa squadra che ho imparato ad amare in età adulta, seguendo il fratello che, lui sì, l'aveva scelta fin da bambino. A me l'Inter era piaciuta perché soffriva, perché ci provava e non vinceva, perché inseguiva un sogno. Mi piaceva pensare che quel sogno si sarebbe realizzato e che la sofferenza, tanta, si sarebbe trasformata in una felicità intensa, indescrivibile, fortissima.
Una felicità maturata dopo anni di sfottò, di delusioni e sconfitte cocenti, di lacrime di amarezza, il derby perso 6 a 0, il 5 maggio 2002, l'esclusione dalla Champions a favore del Milan senza aver mai perso, i "Non vincete mai!", i cori come "Interista chiacchierone bravo sotto l'ombrellone ... [... ] e come l'anno scorso e come l'anno prima [...]", "Interista diventi pazzo!" e quant'altro.
Eppure ci credevo davvero, lo sentivo nel profondo del cuore che sarebbe capitato. Perché ero convinta anch'io, con Jim Morrison, che "A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato".
Così, mentre continuo a piangere di gioia, penso che sia valsa la pena sopportare tanta sofferenza per provare, adesso, il dolce sapore del trionfo."

https://vimeo.com/11960846?ref=fb-share&1 

lunedì 9 gennaio 2012

Scialla

Ci sono volte in cui vorrei essere meno sensibile, evitare di preoccuparmi delle reazioni o delle emozioni dei miei interlocutori, evitare di pormi problemi, interrogativi, dubbi, temendo che qualunque mia azione possa essere equivocata o indispettire i miei interlocutori.
Dovrei stare più scialla, come dicono i miei studenti.
E invece mi torturo, mi tormento, mi blocco oppure, al contrario, agisco, esplodo e poi mi pento.
Il fatto è che chi, come me, si pone continui interrogativi, non può restare tranquilla, non sa, proprio perché non l'ha mai provato, cosa significhi restare scialla.

domenica 8 gennaio 2012

scelte

Arrivò il momento di dover scegliere. Era un'ottima opportunità: una borsa di studio conferita da un'università svizzera, la possibilità di effettuare l'attività di ricerca che avevo sempre sognato di svolgere.
"Dimentica mariti e passeggini e potrai lavorare con me!" mi disse, fuori dai denti, la docente del corso di pedagogia, relatrice della mia tesi di laurea.
Avevo 24 anni e tutta la vita davanti. Non mi importava scordarmi dei passeggini, cui non avevo mai pensato, nemmeno quando, da bambina, giocavo con le bambole che, di volta in volta, immaginavo essere miei nipoti, miei alunni, ma MAI miei figli.
Il problema, però, è che avevo appena incontrato quello che mi sembrava (e non mi ero sbagliata) essere l'uomo della mia vita. Non avevo voglia di abbandonare la ricerca universitaria ma, nello stesso modo, non avevo voglia di rinunciare ad una storia d'amore che poteva essere "la storia d'amore".
Trovai un compromesso, cercando di operare una scelta che mi permettesse di poter fare ciò che avevo comunque a cuore: iniziai a collaborare con un'altra docente presso la mia università e successivamente mi inserii nelle graduatorie di supplenza di una provincia lombarda. Era aprile. Ad ottobre di quello stesso anno, era il 1988, partii per la mia prima supplenza. Addio carriera universitaria, diventai un'insegnante precaria di lettere.
Insegnare mi piacque, anche se in precedenza non avrei voluto fare l'insegnante.
Attualmente ritengo che il mio mestiere sia il più affascinante dei mestieri. E non ho sbagliato quando ho rinunciato a una borsa di studio per un amore. Per il mio amore.
Ciò che mi infastidisce, tuttavia, quando ripenso a questa storia, è che, probabilmente, se fossi stata un uomo, nessuno mi avrebbe chiesto di scegliere tra carriera e famiglia.
Finché sarà così, non esisterà una vera parità tra uomini e donne.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 settembre 2008)

sabato 7 gennaio 2012

donne senza figli

Tra i post pubblicati sulla vecchia piattaforma, questo, scritto il 25 gennaio 2009, è risultato essere il più seguito, il più commentato, il più criticato.

"Quand'ero bambina, ricordo che i miei genitori frequentavano spesso, oltre ad un'altra coppia con figli della stessa età mia e di mio fratello, una coppia senza figli.
Ho ancora bene in mente lo sguardo e gli atteggiamenti di quella donna che guardava noi bambini con tenerezza, malinconia e, forse, una punta di invidia.
A me, lo confesso, faceva quasi paura. Dai discorsi che sentivo pronunciare dagli adulti, mi ero convinta che una "normale famiglia" dovesse comprendere un padre, una madre e (condizione necessaria) almeno un figlio. Sventurate erano dunque le donne sposate senza figli, sventurata era quella signora che compensava la sua voglia di maternità frequentando coppie con figli su cui riversava il suo affetto.
Sinceramente, già da allora, a me non piaceva l'idea che il mio destino di donna fosse quello di sposa e madre. Nei miei giochi con le bambole, immaginavo sempre di essere una suora, un'insegnante, una benefattrice che dovesse prendersi cura dei bambini. Le mie bambole non erano mai i miei figli.
Crescendo, grazie anche alle frequentazioni ed agli studi compiuti nonchè all'evoluzione dei costumi, ho elaborato l'idea che una coppia potesse essere una famiglia anche senza avere dei figli. La maternità e la paternità non dovevano essere intese come un mero fatto biologico o come un dovere, né come una necessità o un compito dell'individuo ma come una scelta. Una scelta libera, responsabile e condivisa della coppia.
Da parte mia, non mi sentivo adatta ad essere madre, non mi interessava esserlo, non volevo esserlo. Era una scelta libera e responsabile, calibrata sulla mia personalità. Una scelta condivisa con il ragazzo che è diventato mio marito e che, crescendo, aveva individualmente elaborato la stessa mia identica concezione. Il nostro rapporto è cresciuto così. Siamo una felice coppia senza figli che frequenta prevalentemente coppie senza figli. Perché, che piaccia o no, gli interessi, gli obiettivi, i ritmi di vita tra i due modelli familiari sono completamente diversi.
Ciò che spesso mi ha sorpreso ed ancora oggi, a volte, mi sorprende é vedere lo sguardo indignato di chi, nel momento in cui affermo che non ho figli per libera scelta, mi guarda come se fossi una pazza o una strega.
A parte il fatto che ritengo davvero inopportuno chiedere a chiunque, anche alle persone con cui si è in confidenza, il motivo per cui una coppia non abbia figli.
Credo che siano questioni private e delicatissime che, al limite, possono essere confidate da parte di chi le vive ma su cui, a mio avviso, non é cortese informarsi.
Questo perché se tale domanda lascia me (e le altre donne che hanno fatto la mia stessa scelta) completamente indifferente, per alcune, quelle che hanno sognato per tutta la vita di poter cullare, coccolare e stringere al petto il proprio figliolo e per una serie di motivi non sono riuscite a diventare madri, la stessa domanda può essere motivo di malinconia e frustrazione, degna di commiserazione, magari, da parte dell'indelicato interlocutore.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, visto che con il tempo ho imparato che è inutile discutere con chi non vuole capire, quando mi si chiede perchè non abbia figli, dopo la fase in cui mi sono divertita a sfidare i miei interlocutori, assumo un'espressione afflitta e sussurro: "Non ne sono venuti." . In questo modo, rispetto la normalità, l'ipocrisia e la banalità che i più apprezzano."