martedì 31 gennaio 2012

Educazione ai sentimenti

Si può educare ai sentimenti? E lo si può fare a scuola? Io penso di sì. E ne sono così convinta al punto che spesso dedico un modulo delle mie lezioni all'amore. Del resto, la storia della letteratura e dell'arte non possono prescindere dall'amore. Al di là dei testi classici, soprattutto nelle prime classi, utilizzo spesso, prima o insieme ai testi letterari classici (ad esempio, il canto V dell'Inferno e l'amore passionale e travolgente di Paolo e Francesca; l'amore contrastato e drammatico di "Romeo e Giulietta" nella omonima tragedia di Shakespeare, ecc.) film più o meno recenti (e più o meno accattivanti) dedicati all'argomento.

Mi è capitato così di utilizzare i tre film dal titolo, in Italia, "Il tempo delle mele". Sia chiaro: solo il primo e il secondo film sono tra loro legati e raccontano le vicende di Vic, adolescente alle prese con le prime infatuazioni e i primi innamoramenti.

Il terzo film, come vari dizionari specializzati sottolineano, non ha nulla a che vedere con i primi due a parte l'attrice protagonista, Sophie Marceau.

Ai miei alunni adolescenti sono piaciuti il primo e, soprattutto, il secondo film. Non hanno molto apprezzato invece il terzo film.

Ad essere sinceri, "Il tempo delle mele 3" non è, usando un eufemismo, un capolavoro.

Contiene però, a mio avviso, un'interessante sequenza, la penultima del film, in cui la protagonista, Valentine, sostenendo l'esame finale di abilitazione all'insegnamento, presenta una relazione in cui, analizzando "Il Misantropo" di Moliere, utilizza le sue vicende private per imbastire una lezione sull'opera.

"Per me" dice Valentine, "nelle incoerenze dell’amore trattate da Moliere, amare ciò che non conviene è la molla più sovente utilizzata, perché contiene un impatto drammatico eterno e pone la dolorosa questione della difficoltà di amare.

Amare ciò che non conviene, sorgente di errori e di conflitti, spinge i personaggi alla scelta cruciale dell’amore: la scelta tra l’amore tout court e l’amore di sé. [...]

Moliere solleva ante litteram uno dei problemi fondamentali delle coppie moderne: l’indipendenza della donna.

Ciascuno dei due eroi muove ed anima il suo universo, li confrontano ad armi uguali e questi universi sono irriducibili l’un l’altro.

E questa passione irragionevole che Alceste (il protagonista de "Il Misantropo, n.d.r.) combatte, questa passione è a volte profondamente toccante.

Quando per esempio Alceste, il puro, l’intransigente, il nemico fanatico della menzogna, supplica Celimene (la donna di cui Alceste è innamorato, n.d.r.) di mentirgli.

Atto quarto, scena terza: “Sforzatevi di apparire fedele ed io mi sforzerò di credervi tale”.

Nel quinto atto egli spera ancora di cambiarla ma è una chimera, non si può cambiare un essere e non si ha il diritto di esigere questo cambiamento.

Attraverso delle scuse imbarazzate, nel linguaggio prezioso del XVII secolo, ciò che Celimene vuol far comprendere ad Alceste, ciò che lei vuole dirgli è: “Se mi ami, accetta me come sono perché io non cambierò. Tu accetta me come sono ed io accetterò te come sei”.

Alceste è intransigente, egoista, possessivo. Celimene è leggera, irresponsabile, infedele. Ma se accettassero i loro difetti, se riuscissero a sorridere delle loro differenze sarebbe la vittoria dell’amore sull’amor proprio. Solo che questi sacrifici non sono degni che di un grande amore.

E come si riconosce un grande amore?

Il giorno in cui ci si accorge che l’unico essere al mondo che può consolarvi è quello che vi ha fatto del male, allora si sa che si è una coppia.

“Il Misantropo”: commedia o tragedia?

Monsieur (il fratello del re Luigi XIV, n.d.r.) diceva uscendo da una rappresentazione: “Quando si smette di ridere, bisognerebbe piangere!” ed è vero: assistere al fallimento di un grande amore è terribilmente triste, immaginare i due eroi ricacciati nel deserto della loro solitudine è una desolazione.

Io credo sia questo il messaggio di Moliere giunto a noi attraverso il tempo.

E’ a voi, se permettete, che questo discorso è diretto: c’è qualcuno tra voi che ama abbastanza l’essere che dice di amare da preferire la sua felicità alla propria? Da lasciarlo vivere al suo ritmo, piangere delle sue delusioni, ridere delle sue gioie?

E terminerei con queste parole di Alfred De Musset:

“Tutti gli uomini sono bugiardi, incostanti, falsi, chiacchieroni, ipocriti, orgogliosi e vili, vigliacchi e sensuali. Tutte le donne sono perfide, vanitose, artificiose, curiose, depravate. Ma se c’è al mondo una cosa santa e sublime è l’unione di questi due esseri così imperfetti e vuoti.”

“Non Si Scherza Con L’Amore”, scena seconda, atto quinto."
(Già pubblicato su altra piattaforma il 9 febbraio 2009)

"Che fare?"

"Che fare?" mi sento spesso chiedere da genitori alle prese con figli adolescenti indolenti, sgarbati, incontenibili, irritanti.

"Eppure" sostengono "fino a qualche tempo fa era tanto tranquillo...".

A me, sinceramente, verrebbe da rispondere che no, quel ragazzino, tranquillo, da che io lo conosco (e sono ormai molti anni), non lo è mai stato. Era indisponente, prepotente, egocentrico e, soprattutto, abituato a vedere appagata ogni sua richiesta non appena fosse formulata. Che cosa è cambiato, adesso? E' cambiato il valore, la qualità delle sue richieste.

Un adolescente ha esigenze diverse rispetto a quelle di un ragazzino di tre, cinque, sette anni. Dal suo punto di vista egli continua ad essere come è sempre stato.

Il genitore, invece, pensa che sia arrivato il momento di dire no. Ma ai "no" ci si deve abituare fin dalla più tenera età. Altrimenti si penserà, come alcuni adolescenti fanno, di subire un sopruso, di perdere un diritto acquisito. Chi di noi ha mai voluto rinunciare ad un diritto acquisito?

Ecco perché è importante che i genitori stabiliscano, da subito, regole precise e coerenti nell'educazione dei propri figli. Naturalmente tali regole dovranno essere adeguate all'età del bambino, ma non si può assolutamente pensare di far vivere come un selvaggio il proprio pargolo pensando poi di addomesticarlo quando diventerà più grande, stupendosi poi della difficoltà di farlo.

Vivere con un adolescente è indubbiamente difficile, ma lo è ancora di più quando ci si trova alle prese con un adolescente maleducato o ineducato. A cui è stato detto, magari in nome di un maggior presunto amore, troppe poche volte "NO!".



"Tu non mi vuoi bene!"

"Quante volte ve lo siete sentito dire dai vostri figli in tono accusatore?

E quante volte avete resistito alla tentazione di spiegar loro quanto li amavate?

Un giorno, quando i miei figli saranno abbastanza grandi da capire la logica che spinge una madre a comportarsi in un certo modo, glielo dirò.

Ti ho amato abbastanza da chiederti continuamente dove andavi, con chi e a che ora saresti tornato.

Ti ho amato abbastanza da insistere perché ti comprassi una bicicletta con i tuoi soldi, anche se noi potevamo permettercela e tu no.

Ti ho amato abbastanza da star zitta e lasciare che scoprissi da solo chi era l'amico che ti eri scelto.

Ti ho amato abbastanza da costringerti a restituire al proprietario del negozio la cioccolata già morsicata e confessare: <<L'ho rubata>>.

Ti ho amato abbastanza da restar lì come un gendarme per più di due ore a guardarti pulire la stanza, un lavoro che io avrei potuto fare in un quarto d'ora.

Ti ho amato abbastanza da dire: <<Sì, vai pure al luna park. Non importa se è il giorno della mamma>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che vedessi la rabbia, la delusione, il disgusto e le lacrime nei miei occhi.

Ti ho amato abbastanza da non scusarmi mai con gli altri per le tue mancanze o cattive maniere.

Ti ho amato abbastanza da ammettere di aver avuto torto e chiederti scusa.

Ti ho amato abbastanza da ignorare quello che dicevano o facevano <<le altre madri>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che inciampassi, cadessi, ti facessi male, sbagliassi.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che ti prendessi le responsabilità delle tue azioni, a sei, come a dieci, o a sedici anni.

Ti ho amato abbastanza da sospettare che avevi mentito sulla presenza dei genitori del tuo amico a quella festa, e lasciar correre... dopo aver scoperto che non mi sbagliavo.

Ti ho amato abbastanza da metterti a terra, lasciarti andare la mano, non rispondere alle tue suppliche... perché imparassi a stare in piedi da solo.

Ti ho amato abbastanza da accettarti per quello che sei, non per quello che avrei voluto che fossi.

Ma soprattutto ti ho amato abbastanza da continuare a dire <<No>> anche sapendo che mi avresti odiato. E' stata questa la decisione più difficile."

(Il brano dal titolo "Tu non mi vuoi bene" è tratto da: Erma Bombeck: "Se la Vita è un piatto di Ciliege, perché a me solo i Noccioli?", Edizioni Club del Libro su licenza della Longanesi & C., Milano, 1981, Edizione Longanesi: 1980, pgg. 210 - 212)
(Già pubblicato su altra piattaforma l'8 febbraio 2010)

"Chiedi di più"

Ci prendevano in giro perché anziché (o oltre che) ascoltare Bob Marley o Patti Smith ascoltavamo Renato Zero, Umberto Tozzi e i Pooh.
Ci guardavano scambiarci "Tregua", "Gloria", "Boomerang" e i loro sguardi non nascondevano la loro riprovazione, come se stessimo commettendo chissà quale misfatto. Ma per le orecchie nobilissime dei ragazzi del nostro gruppo "quelli lì" erano improponibili.
Così noi ci incontravano in separata sede, a casa dell'una o dell'altra, e lì ascoltavamo canzoni d'amore che ci facevano sognare, meditare, a volte piangere perché troppo forte era la sofferenza d'amore che provavamo o pensavamo di provare.


CHIEDI DI PIÙ


Renato Zero > Tratto dall'Album "Tregua" (1980)

  Se un amore muore,
Una ragione ci sarà.
Forse il coraggio sta morendo!
Poche parole
Una valigia, una bugia,
Ma solo chi rimane
Sa il buio cosa sia…!
Allarga le tue braccia,
A chi ti cercherà…
A chi ti tenderà le braccia!
A chi è pronto a sconfiggere
La noia la dov’è.
A chi di questo amore…
Ha fame come me!
Non voltarti indietro mai,
Sarò felice se ce la farai!
Se vedrai che dopo me,
C’è ancora vita,
Una speranza c’è!
Malgrado tutto resteremo noi…
Coi nostri dubbi dissipati mai!
…Solo noi, ancora noi!
No!
A chi vorrà stupirti…
No!
A chi non sa accarezzarti…
No!
Non basterà una promessa…
No!
Se poi la fine è la stessa…
Chiedi di più,
Chiedi molto di più, ora…!
Chiedi di più,
Di un incontro qualunque
Di un triste su e giù!
Chissà che faccia avrà
Chi mi sostituirà?
Come saranno le sue mani!
Basta che sappia darsi come ho fatto io!
Che non sia solo un gioco,
Solo un mestiere il suo!
No!
A chi gli basta sognarti…
No!
A chi vorrà violentarti…
No!
Se quel tuo istinto non sbaglia…
No!
Se l’anima tua si sveglia…
Chiedi di più
No!
Perché non sei una puttana…
No!
Perché io ogni notte sto in pena…
No!
Forse non ero il migliore…
No!
Ma ti ho insegnato l’amore…

(Già pubblicato su altra piattaforma il 25 giugno 2010)

lunedì 30 gennaio 2012

Post da salvare.

Ho salvato tutti i post del vecchio blog. Alcuni li riscriverei nello stesso identico modo, altri invece no: mi sembrano distanti, superati, non più miei. Il tempo che passa cambia inevitabilmente situazioni e stati d'animo e ciò di cui un tempo eravamo fermamente convinti improvvisamente non ci appartiene più o non ci appartiene nello stesso modo.
Dovessi raccontare adesso alcuni episodi della mia vita li racconterei in modo diverso o non li racconterei affatto: a volte certe storie è bene tenerle per sé o condividerle solo con chi c'era e le ha vissute con noi, magari in modo diverso, ma insieme a noi.

venerdì 27 gennaio 2012

Un mazzo di mimose

Mi sembra di sentirne ancora il profumo inebriante e di provare ancora oggi, benché siano passati esattamente trent'anni da quel giorno, la stessa dolce emozione nel ricevere un mazzo di mimose.
No, non era l'8 marzo (troppo banale regalare o ricevere un mazzo di mimose l'8 marzo, nonché rituale sempre più prevedibile e ormai designificato); era il giorno del mio onomastico e lei, la mia amica, coinquilina, compagna di viaggio e di ventura in quei nostri anni in cui ci chiedevamo chi eravamo e chi saremmo state, mi omaggiò di quel mazzo di mimose che resta nella mia memoria prezioso e semplice, proprio come era, ed è ancora, la nostra amicizia.

domenica 22 gennaio 2012

la 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca non avevo nemmeno la patente), era la macchina della madre del mio amico più caro che, appena ne aveva la possibilità, ne usufruiva.
La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.
Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport per assistere alle partite della locale squadra di basket, effettuare testa-coda magistralmente calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

lunedì 16 gennaio 2012

macerie d'amore (vecchi post)

Mi guardo intorno e sempre più spesso scopro, intorno a me, macerie d'amore.
Coppie che sembravano perfette, indissolubili, unite per l'eternità, che non esistono più e che anzi sono vittime della sofferenza d'amore, del rancore, della cattiveria, dei sensi di colpa per scelte precedenti che hanno fatto male ad entrambi i partner pur se in maniera a volte opposta.
L'amore può essere eterno. Ma a volte finisce. E quando finisce, prenderne atto fa soffrire. Scoprire che l'altro non ha più lo stesso significato fa soffrire entrambi. E, a volte, altri sono coinvolti nella vicenda.
I figli.
Gli amanti. Che non dovrebbero esserci. Ma ci sono. Esistono. E se sono entrati nella nostra storia è perchè ne avevamo bisogno. Niente accade per caso o per capriccio.
Se si è lasciato che qualcuno bussasse alla nostra porta e gli abbiamo aperto, era perché ci mancava qualcosa.
E poi più niente è stato come prima.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 giugno 2010)

Vecchi post: "Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)




Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

vecchi post: "una profe strana"

"Profe, Lei è strana!" - mi dicono ogni tanto gli alunni, dopo essere entrati in confidenza con me, più o meno un paio di mesi dopo il primo nostro incontro in classe.
Naturalmente ogni volta indago. E chiedo in che cosa consista il mio "essere strana".
"Sembra cattiva ma invece è buona" - dicono loro, spiegando che al primo incontro li intimorisco: uso il Lei per rivolgermi loro, ho lo sguardo serio, a volte accigliato, controllo che stiano tutti seguendo, non li lascio ascoltare la loro musica ("Perchè, con gli altri insegnanti succede?" chiedo io. Ahimè, succede...) e li faccio lavorare davvero. "Però poi invece è divertente" e proseguono sostenendo che non si aspetterebbero, date le premesse, una profe che, sfidando le indicazioni del Dirigente Scolastico - fa ascoltare musica in classe, tutti insieme, analizzandone i testi, o discutere su problematiche definite da loro interessanti (lo sono anche per me, chiaramente): stereotipi e pregiudizi nella differenza di genere (tra uomini e donne, per intenderci!), la difficoltà di crescere, l'inquietudine esistenziale (affrontando contemporaneamente lo studio della grammatica e dei classici della letteratura!).
"E poi Lei piange troppo, profe!" e qui, di solito, scoppia il putiferio. "Cosa c'entra che piange! E' una bella cosa!". "Sì, ma una profe seria non piange!". "Per quello è strana!".
Ecco, ora devo ammetterlo pubblicamente: io mi emoziono e, in alcune circostanze, mi commuovo fino alle lacrime: ad esempio, quando leggo il passo dell" "Addio ai monti" o la lirica introduttiva di "Se questo è un uomo", brani tratti da "Lettera a un bambino mai nato" o "Lettera a una professoressa", quando ascolto con loro "Sogna ragazzo sogna" di Roberto Vecchioni o "Non è un film" degli Articolo 31 o quando parlo con loro della vita (e della morte).
Piango tanto. All'inizio della mia ventennale carriera non succedeva. Forse perchè ero giovane e disincantata, forse perchè mi vergognavo ed ero meno spudorata, forse perchè non ero così passionale e appassionata. La prima volta accadde mentre leggevo il brano della morte di Clorinda, tratto dalla "Gerusalemme liberata". E poi è stato un crescendo di brividi lungo la schiena (in fondo, l'arte non deve suscitare emozioni?) e lacrime.
I momenti più belli che ricordo sono quelli dei nostri pianti collettivi, con i maschi che si coprivano il viso per non svelare le lacrime ed io che fingevo di non vedere. Come potrò, come potremo dimenticarli? Quegli attimi saranno nostri per sempre.
Per questo sono fiera di essere "strana".

(Già pubblicato su altra piattaforma il 4 agosto 2008)

Lacrime nerazzurre, uno dei vecchi post

Nella corsa contro il tempo per salvare i vecchi post pubblicati su un'altra piattaforma, indugio spesso nella lettura di quelli che più di altri mi emozionano tuttora, benché sia passato molto tempo dal momento in cui li ho scritti. "Lacrime nerazzurre", pubblicato il 24 maggio 2010, è uno di questi.

"Le lacrime del Capitano, quelle del Chucu, dello Special One, del Principe, di coloro che sugli spalti piangevano di gioia per un'emozione attesa per decenni, un sogno che sembrava dover rimanere tale ed invece diventava realtà in una splendida serata di maggio.
Le mie lacrime di gioia per questa squadra che ho imparato ad amare in età adulta, seguendo il fratello che, lui sì, l'aveva scelta fin da bambino. A me l'Inter era piaciuta perché soffriva, perché ci provava e non vinceva, perché inseguiva un sogno. Mi piaceva pensare che quel sogno si sarebbe realizzato e che la sofferenza, tanta, si sarebbe trasformata in una felicità intensa, indescrivibile, fortissima.
Una felicità maturata dopo anni di sfottò, di delusioni e sconfitte cocenti, di lacrime di amarezza, il derby perso 6 a 0, il 5 maggio 2002, l'esclusione dalla Champions a favore del Milan senza aver mai perso, i "Non vincete mai!", i cori come "Interista chiacchierone bravo sotto l'ombrellone ... [... ] e come l'anno scorso e come l'anno prima [...]", "Interista diventi pazzo!" e quant'altro.
Eppure ci credevo davvero, lo sentivo nel profondo del cuore che sarebbe capitato. Perché ero convinta anch'io, con Jim Morrison, che "A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato".
Così, mentre continuo a piangere di gioia, penso che sia valsa la pena sopportare tanta sofferenza per provare, adesso, il dolce sapore del trionfo."

https://vimeo.com/11960846?ref=fb-share&1 

lunedì 9 gennaio 2012

Scialla

Ci sono volte in cui vorrei essere meno sensibile, evitare di preoccuparmi delle reazioni o delle emozioni dei miei interlocutori, evitare di pormi problemi, interrogativi, dubbi, temendo che qualunque mia azione possa essere equivocata o indispettire i miei interlocutori.
Dovrei stare più scialla, come dicono i miei studenti.
E invece mi torturo, mi tormento, mi blocco oppure, al contrario, agisco, esplodo e poi mi pento.
Il fatto è che chi, come me, si pone continui interrogativi, non può restare tranquilla, non sa, proprio perché non l'ha mai provato, cosa significhi restare scialla.

domenica 8 gennaio 2012

scelte

Arrivò il momento di dover scegliere. Era un'ottima opportunità: una borsa di studio conferita da un'università svizzera, la possibilità di effettuare l'attività di ricerca che avevo sempre sognato di svolgere.
"Dimentica mariti e passeggini e potrai lavorare con me!" mi disse, fuori dai denti, la docente del corso di pedagogia, relatrice della mia tesi di laurea.
Avevo 24 anni e tutta la vita davanti. Non mi importava scordarmi dei passeggini, cui non avevo mai pensato, nemmeno quando, da bambina, giocavo con le bambole che, di volta in volta, immaginavo essere miei nipoti, miei alunni, ma MAI miei figli.
Il problema, però, è che avevo appena incontrato quello che mi sembrava (e non mi ero sbagliata) essere l'uomo della mia vita. Non avevo voglia di abbandonare la ricerca universitaria ma, nello stesso modo, non avevo voglia di rinunciare ad una storia d'amore che poteva essere "la storia d'amore".
Trovai un compromesso, cercando di operare una scelta che mi permettesse di poter fare ciò che avevo comunque a cuore: iniziai a collaborare con un'altra docente presso la mia università e successivamente mi inserii nelle graduatorie di supplenza di una provincia lombarda. Era aprile. Ad ottobre di quello stesso anno, era il 1988, partii per la mia prima supplenza. Addio carriera universitaria, diventai un'insegnante precaria di lettere.
Insegnare mi piacque, anche se in precedenza non avrei voluto fare l'insegnante.
Attualmente ritengo che il mio mestiere sia il più affascinante dei mestieri. E non ho sbagliato quando ho rinunciato a una borsa di studio per un amore. Per il mio amore.
Ciò che mi infastidisce, tuttavia, quando ripenso a questa storia, è che, probabilmente, se fossi stata un uomo, nessuno mi avrebbe chiesto di scegliere tra carriera e famiglia.
Finché sarà così, non esisterà una vera parità tra uomini e donne.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 settembre 2008)

sabato 7 gennaio 2012

donne senza figli

Tra i post pubblicati sulla vecchia piattaforma, questo, scritto il 25 gennaio 2009, è risultato essere il più seguito, il più commentato, il più criticato.

"Quand'ero bambina, ricordo che i miei genitori frequentavano spesso, oltre ad un'altra coppia con figli della stessa età mia e di mio fratello, una coppia senza figli.
Ho ancora bene in mente lo sguardo e gli atteggiamenti di quella donna che guardava noi bambini con tenerezza, malinconia e, forse, una punta di invidia.
A me, lo confesso, faceva quasi paura. Dai discorsi che sentivo pronunciare dagli adulti, mi ero convinta che una "normale famiglia" dovesse comprendere un padre, una madre e (condizione necessaria) almeno un figlio. Sventurate erano dunque le donne sposate senza figli, sventurata era quella signora che compensava la sua voglia di maternità frequentando coppie con figli su cui riversava il suo affetto.
Sinceramente, già da allora, a me non piaceva l'idea che il mio destino di donna fosse quello di sposa e madre. Nei miei giochi con le bambole, immaginavo sempre di essere una suora, un'insegnante, una benefattrice che dovesse prendersi cura dei bambini. Le mie bambole non erano mai i miei figli.
Crescendo, grazie anche alle frequentazioni ed agli studi compiuti nonchè all'evoluzione dei costumi, ho elaborato l'idea che una coppia potesse essere una famiglia anche senza avere dei figli. La maternità e la paternità non dovevano essere intese come un mero fatto biologico o come un dovere, né come una necessità o un compito dell'individuo ma come una scelta. Una scelta libera, responsabile e condivisa della coppia.
Da parte mia, non mi sentivo adatta ad essere madre, non mi interessava esserlo, non volevo esserlo. Era una scelta libera e responsabile, calibrata sulla mia personalità. Una scelta condivisa con il ragazzo che è diventato mio marito e che, crescendo, aveva individualmente elaborato la stessa mia identica concezione. Il nostro rapporto è cresciuto così. Siamo una felice coppia senza figli che frequenta prevalentemente coppie senza figli. Perché, che piaccia o no, gli interessi, gli obiettivi, i ritmi di vita tra i due modelli familiari sono completamente diversi.
Ciò che spesso mi ha sorpreso ed ancora oggi, a volte, mi sorprende é vedere lo sguardo indignato di chi, nel momento in cui affermo che non ho figli per libera scelta, mi guarda come se fossi una pazza o una strega.
A parte il fatto che ritengo davvero inopportuno chiedere a chiunque, anche alle persone con cui si è in confidenza, il motivo per cui una coppia non abbia figli.
Credo che siano questioni private e delicatissime che, al limite, possono essere confidate da parte di chi le vive ma su cui, a mio avviso, non é cortese informarsi.
Questo perché se tale domanda lascia me (e le altre donne che hanno fatto la mia stessa scelta) completamente indifferente, per alcune, quelle che hanno sognato per tutta la vita di poter cullare, coccolare e stringere al petto il proprio figliolo e per una serie di motivi non sono riuscite a diventare madri, la stessa domanda può essere motivo di malinconia e frustrazione, degna di commiserazione, magari, da parte dell'indelicato interlocutore.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, visto che con il tempo ho imparato che è inutile discutere con chi non vuole capire, quando mi si chiede perchè non abbia figli, dopo la fase in cui mi sono divertita a sfidare i miei interlocutori, assumo un'espressione afflitta e sussurro: "Non ne sono venuti." . In questo modo, rispetto la normalità, l'ipocrisia e la banalità che i più apprezzano."

martedì 3 gennaio 2012

Folle passione

Non è follia la mia, sostiene l'amica del cuore, ma passione.
Passione ed amore per la vita, curiosità, interesse ed attenzione, desiderio. E' il bisogno di essere nelle cose e di non farsi travolgere dalle stesse. E' la voglia di vivere che sempre, anche nei momenti più oscuri, che pur necessariamente si attraversano, non manca mai e trova sempre un appiglio cui aggrapparsi, per ritrovarsi poi ad assaporare la bellezza e la gioia di essere, di esserci.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 29 settembre 2011)